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Gita d'autunno in Casentino indietro

Gita dei colori d'autunno in Casentino                   12 novembre 2015

Testo di Carla Contessi                                                                                                        foto di Lelio Suprani

Partiamo da Ravenna, dove la nebbia preannuncia una giornata serena. La nostra storica cara guida Anna Missiroli, durante il tragitto, ci illustra il paesaggio che stiamo attraversando. La strada, che fu la statale 71 umbro-casentinese, progettata nel 1870, e che ora, nella parte romagnola provinciale e in quella toscana regionale, è costeggiata da rocce a strati di marne e arene che le conferiscono un aspetto arido e spigoloso. Costeggiamo la foresta della Lama, di 37000 ettari. 
Al passo dei Mandrioli (1173 m) lasciamo le valli nebbiose della Romagna ed entriamo nella Toscana limpida e soleggiata. Vediamo alcune case cantoniere di pietra arenaria, la nostra pietra serena che qui viene chiamata macigno. La foresta è costituita da faggi ormai spogli che alzano i loro tronchi bianchi da un tappeto di foglie rossastre e abeti bianchi che slanciano i loro tronchi diritti verso il cielo. 
Siamo a Badia Prataglia (835 m) il cui toponimo indica l'esistenza di una badia benedettina (960) poi divenuta camaldolese che non esiste più dal 1 e numerosi prati. Resta la chiesa romanica, con una suggestiva cripta. 
Da Badia, attraverso il passo dei Fangacci, si arriva direttamente a Camaldoli, ma il pulmann deve proseguire per la regionale 71, nella valle del torrente Archiano, affluente dell'Arno. Su di un poggio si intravede Serravalle (il toponimo dice tutto). La foresta ora è un bosco ceduo (che si può tagliare) dove predomina il castagno. 
L'abbazia di Camaldoli fu fondata dal ravennate San Romualdo nel 952. La sua biografia fu scritta da San Pier Damiani, dopo pochi anni dalla morte di Romualdo. Nel luogo esisteva un castello di un conte Mandolo: da qui il nome Ca' Mandolo. Romualdo sentiva molto il contatto con la natura e fece piantare molti abeti. Ora l'abete bianco viene utilizzato per la produzione di carta; qui vicino c'è una grossa cartiera. 
Nella sua regola, Romualdo contemplava il digiuno, il silenzio e il non uscire dalla cella. 
L'eremo, inizialmente costituito da cinque celle, ne conta ora venti ed è circondato da un muro di cinta. I monaci vivono nelle loro celle e si ritrovano insieme per le lodi del mattino, dell'ora media e del vespro. Una volta al mese si riuniscono nel refettorio per un pranzo comunitario. 
Dal 2013 si entra nell'eremo attraverso una cappella, perché la porta di bronzo di accesso è un monumento che rappresenta la morte (un albero cavo, un teschio umano e uno di capra) e la vita (un albero vivo, un uovo). Nel retro la porta è suddivisa in sette riquadri con alcune scritte che ricordano frasi di San Romualdo: sarai cedro per la nobiltà d'animo, acacia che con le sue spine ricorda la penitenza, mirto per la temperanza, olivo simbolo di pace, abete per la sua altezza, olmo per la sua opera di sostegno, bosso per umiltà e perseveranza. Le venti celle si intravedono al di là di una cancellata, ma fuori ce n'è una che si può visitare. Attorno a ogni cella c'è un orto, si entra attraverso un portichetto; dentro ci sono la legnaia, il camino, l'oratorio, lo studiolo, il letto. I muri sono spessi di pietra serena, foderati di legno e muniti di acqua corrente. C'è anche una macina che serviva per macinare i legumi di cui i monaci si nutrivano. Le venti celle sono poste su cinque file e circondate da un muretto che le separa e nello stesso tempo le unisce. In fondo c'è il cimitero e una cappella dove sono sepolti i monaci santi.
Attorno all'eremo c'erano tenute agricole e case coloniche di proprietà anche tutt'ora dell'abbazia. La chiesa, dove i monaci seguono le liturgie, è a forma di croce copta rovesciata e all'interno è sovrabbondante di stucchi barocchi. Nella sacrestia è conservata una bella ceramica della bottega dei Della Robbia, rappresentate una Madonna con bambino e due santi. 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Ci dirigiamo verso il Monastero. Questi luoghi, molto suggestivi, ospitano altri eremi come Vallombrosa e la Verna. Fin dal 1500 qui si fecero studi sulla conservazione del territorio, perché si era intuito che è molto stretto il rapporto fra forestazione e regime delle acque. Cosimo I Medici ordinò che il bosco non fosse tagliato fino a un miglio dal crinale. Poi dal 1700 cambiò la politica provocando gravi danni: il bosco poteva essere tagliato per far posto a campi e pascoli. Dalla metà dell'800 si comprese che era necessario salvaguardare i boschi e venne introdotto da un boemo il pino nero, proveniente dall'Austria, che si adattò bene a questo territorio.
Davanti al monastero c'è un fontanile lavatoio con sopra lo stemma dei camaldolesi: due colombe che si abbeverano a un calice. All'interno del monastero ci sono due chiostri. Nel primo, di pietra arenaria, c'è la cappella dello Spirito Santo dell'XI secolo che faceva parte del castello di Mandolo. È molto buia, con finestre piccole come feritorie, che si aprono in muri molto spessi. Nel secondo chiostro, quattrocentesco, detto dei Fanciulli, si apre il refettorio per gli ospiti. Nella chiesa costruita nel 1200 e rifatta nel 1700 con interno barocco, sono visibili tele di Pacini e Vasari. 
La farmacia del 1523 è arredata con gli antichi scaffali di legno intagliato e i vasi di terracotta che contenevano i medicinali. Nell'annesso laboratorio ci sono mortai, macine, un focolare e vari recipienti. 
Al di fuori scorre un torrente che faceva funzionare un mulino e la segheria. 
Dopo un ottimo pranzo, a base di prodotti locali e di stagione, ci rimettiamo in viaggio attraverso il Casentino (luogo circoscritto) con i suoi cipressi tipici della Toscana. La valle è ampia (ricorda un catino), molto fertile, perché anticamente era occupata da laghi. 

 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Arriviamo a Poppi (forse da pagus villaggio) definito dal Touring uno dei borghi più belli d'Italia. Al centro del paese c'è una fontana di marmo del 1440 col giglio di Firenze e una chiesetta a pianta centrale detta della Madonna del morbo. Qui, già nel '600, un sacerdote ebbe l'intuizione di fare trasfusioni di sangue. Le strade sono tutte porticate e portano verso l'abbazia di San Fedele, chiesa romanica: all'interno i muri sono a righe di conci bianchi e neri tipici della zona. 
Ci affacciamo a un belvedere che mostra tutta la vallata. 
Un prodotto tipico della zona sono le lane casentinesi, una sorta di lana un po' infeltrita per capi pesanti. 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


In cima al poggio, s'innalza il castello dei conti Guidi, che lo abitarono fino al 1440, quando, dopo il tradimento di uno dei Guidi, subentrò il podestà di Firenze. Attorno all'elegante castello, corre un grande fossato ormai asciutto. Molto più in basso si vede scorrere l'Arno. Si entra attraverso un piccolo rivellino dove si apriva il ponte levatoio decorato da molti stemmi corrosi dal tempo. Le mura e il castello sono ornati da merli guelfi. Su una colonna, nel cortile, fa la guardia un "marzocco" fiorentino, il leone simbolo della repubblica di Firenze, prima che i Medici adottassero il giglio. L'esterno presenta eleganti bifore con vetri a piombo. L'alta e snella torre del castello, secondo Vasari, avrebbe ispirato quella di Palazzo Vecchio. All'interno un cortile, ora coperto da una vetrata, permette l'accesso attraverso un'imponente scala, ai piani superiori che ospitano l'archivio comunale. Vicino al secondo ingresso c'è un grande affresco e il tavolo della giustizia dove venivano comminate le pene. I prigionieri venivano rinchiusi in celle anguste e senza finestre. Sul cortile si aprono le scuderie con gli anelli per issare i cavalieri addobbati con le loro pesanti armature e la porta per il rifornimento del fieno.
Lungo la strada verso la nostra prossima meta, vediamo una colonna che ricorda la battaglia di Campaldino, una delle più cruente del medioevo, fra la Firenze guelfa e Arezzo ghibellina a cui partecipò anche Dante.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pieve di San Pietro a Romena, del 1152, si mostra in tutta la sua magnificenza: un'importante abside con due ordini di colonne. La facciata, molto semplice, non è quella originale che si fregiava di un grande rosone, perché una frana la fece crollare. È a 3 navate con importanti capitelli riccamente scolpiti. Le eleganti trifore dell'abside danno luce all'interno. La chiesa è gestita dal 1991 da una comunità: Fraternità che vive di ospitalità e con grande spirito ecumenico si rivolge non solo ai cristiani, ma anche ai fedeli di altre religioni. Vi sono raccolte diverse macine, secondo lo spirito di San Romualdo.
Al ritorno è ormai buio e lungo la strada ci accompagnano i tronchi bianchi e spettrali dei faggi.
Giornata splendida, sotto tutti i punti di vista, bel tempo, monumenti e paesaggi suggestivi, ottima compagnia. Grazie ad Anna e a tutti noi.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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